Una questione di priorità

Cosa il sindacato italiano deve ancora comprendere

Oggi inizia l'intervento della Bce e delle Banche centrali nazionali sul mercato dei titoli pubblici. Il grosso degli acquisti sarà compiuto dalle Banche centrali nazionali (l'80 per cento del totale) e il 20 direttamente dalla Bce. Gli effetti sul mercato si sono visti giovedì e venerdì scorsi con un balzo in avanti: il prezzo dei titoli è aumentato al massimo, lo spread rispetto ai Bund tedeschi è diminuito a 100 punti-base allineando di fatto il tasso di cambio tra l'euro e il dollaro alla parità. Questo comporta vantaggi evidenti sulle esportazioni. Di fatto, un quinto dei debiti nazionali diventa debito europeo. Il presidente del Consiglio Renzi è andato in brodo di giuggiole. Si capisce facilmente: il governo italiano avrà due/tre miliardi di minori uscite utili al Tesoro per pagare gli interessi sul debito pubblico. Se si considera il ribasso del prezzo del petrolio, le cose potrebbero andar anche meglio. E’ vero che la crescita del Pil è ancora poca cosa, ma col tempo le cose possono migliorare e magari riflettersi sull'occupazione che è aumentata anche se non in maniera considerevole. Si tratta di capire se ora si saprà sfruttare un’occasione così propizia, o come altre volte è accaduto, anche una congiuntura tanto favorevole, verrà sprecata. Non che il premier Renzi sia insensibile all'obiettivo della crescita che Draghi sta realizzando. Il Jobs act è il cavallo di battaglia del governo e qui iniziano i problemi, seri. Le rappresentanze sindacali non sono convinte della riforma e persino una parte del partito di maggioranza relativa, si è detta contraria al provvedimento tanto di invocarne, con l’ex segretario Bersani, l’incostituzionalità. Eugenio Scalfati ha scritto domenica scorsa, che il premier si è avviato su un terreno scosceso. Con i sindacati sul piede di guerra, dodici milioni di cittadini elettori, se non di più, si mettono di traverso. Bisogna che il governo trovi in fretta un qualche accordo con le organizzazioni sindacali che vedono la riforma come un viatico per i licenziamenti e non una facilitazione per nuove assunzioni. La Commissione europea ha espresso un parere diverso: il Jobs act è una buona cosa. Di fatto il Jobs act è stato considerato dall’amministratore delegato di Fca, Sergio Marchionne, indispensabile per richiamare dalla cassa integrazione un migliaio di lavoratori a Pomigliano. La Fiom, che ha contestato i sabati lavorativi, è rimasta isolata, al suo sciopero hanno aderito 5 operai in tutto su 1800. E’ un segnale importante di come chi vuole il lavoro si renda conto della necessità di sacrifici a scapito dei diritti acquisiti. Siamo d’accordo che per rilanciare l’occupazione il Jobs act non basti: servano investimenti e quant’altro, però non è solo il governo a doversi muovere, ma anche il sindacato che ora protesta. Il Tesoro americano, preoccupato dal calo dei salari in Germania, ha invitato, l’anno scorso, il governo tedesco ad aumentarli. In quel caso, il sindacato tedesco ha risposto che per prima cosa ci si deve preoccupare di mantenere gli standard occupazionali. Una questione di priorità che il sindacato italiano ancora tarda a comprendere.

Roma, 2 marzo 2015